Valeria Soave

Digital nomads

Essere nomade affascina il sedentario in quanto ‘altro polo’, rappresenta la possibilità di poter cambiare e non cristallizzarsi in una vita sempre uguale a se stessa. Affascinano i nomadi del deserto, i tuareg vestiti di blu con i loro turbanti, gli occhi neri e lo sguardo all’orizzonte, i loro cammelli, le loro tende, la loro musica, il fuoco acceso e il tajine sulle dune. Affascina anche il nomade digitale, la cui unica vera patria è Internet. Una patria portatile, senza territorio fisso, ma con territorio temporaneo e circostanziale. Dove lavori? Lavoro online. Ah. 

Un po’ qui e un po’ lì. Un paio di mesi da una parte e un paio di mesi da un’altra parte, come fa una mia alunna olandese che nomadizza da un lato all’altro dell’Italia. Non si tratta di errare, muoversi senza sosta con l’idea di cercare una terra promessa (il nomade non conosce la parola diaspora), neanche di perdersi o di disperdersi, perché non esiste il ricongiungimento con un presunto gruppo né una presunta casa (ci si riconosce, nel caso, quando ci si incrocia per il cammino). Si tratta di insediarsi temporalmente in un territorio, andare al mercato o al supermercato, diventare ricorrenti per le persone del posto, imparare lingue, decifrare codici e costumi, intessere relazioni, cambiare casa e vista senza pensare a personalizzare l’arredamento, dipingere i muri, comprare mobili o chiamare l’idraulico. Piuttosto, ci si spersonalizza. L’unica estensione di sé è la valigia, o lo zaino, la casa di lumaca che non conosce la fretta, la tenda che si pianta e si leva. Si pascola un po’ e poi si pascola da un’altra parte, come un tempo, come i pastori della Mongolia, senza bisogno di erigere muri, appendere quadri o costruire acquedotti e ponti. Si vive in una relazione simbiotica estemporanea con il territorio, apportando reciprocamente, si lasciano pezzi di sé e ci si arricchisce di nuovi pezzi allo stesso tempo, si cambia a seconda del posto che si abita e delle lingue che si parlano o non si parlano. All’inizio sembri un turista, poi la gente comincia a chiedersi se ti sei trasferito lì, l’idea che rimani un paio di mesi gli piace, e a un certo punto, arrivederci, ci sentiamo per email o video-chiamata, mi ricorderò di te, forse ci rivedremo. Da dove sei partito perde importanza, ne acquista il tuo percorso, di cui il tuo essere e il tuo corpo si rendono portatori. L’origine non importa, importa il tragitto. Il nomadismo è una migrazione costante che rinuncia al ritorno, alla famiglia, agli amici di vecchia data che vedi al bar o con cui vai a mangiare una pizza o a fare un pic-nic in campagna, quelli che vedi tutti i giorni e con cui si creano scherzi e storie. Rinunci al calore del clan e abbracci la dimensione solitaria della non appartenenza.