Tudo bem? Tudo bom
Salam, labás, kidayra? Kulshim mzièn. Alhamdulillah
Nanga def? M’nghifí
How are you? Fine thanks. How about you?
Ça va? Ça va bien
Qué tal? Muy bien. Tú qué tal?
Come stai? Tutto bene, anche tu?
Tutt’apposto? Tutt’apposto.
La componente ritmica dei primi scambi di un incontro tra due persone è di gran lunga più importante del contenuto espresso. È una porta di accesso alla comunicazione, una verifica del canale, una sincronizzazione iniziale, una ‘prima comunione’, per così dire, con l’altra persona, un rituale di contatto. Se qualcosa va male nella tua vita, non è questo il momento adeguato per raccontarlo. Non in tutte le culture è così. In molti casi le persone non si rassegnano a domande-risposte così banali e cercano risposte originali o addirittura letterali, a volte per uscire dal sentiero già marcato e in altri casi per dimostrare sincerità, onestà e rispetto. L’informazione di questi primi scambi non circola attraverso le parole pronunciate, ma si manifesta in modo più incosciente, sarà linguaggio non verbale o forse, saranno impulsi elettrici, chi lo sa.
Ho impiegato due anni di pendolarismo tra África e sud Europa per rendermi conto che rispondere alla domanda ‘come stai?’ non è poi così difficile. Può esaurirsi in un momento come un jingle, o può diventare l’ouverture di una jam session, dipende dalla persona e dal tempo a disposizione.
Quando si sentono parlare altre persone in una lingua che non si conosce né si capisce, è più facile coglierne la musicalità. Molte persone sono attratte dall’italiano senza conoscerlo, perché lo trovano una lingua estremamente musicale: io come nativa non posso coglierne questo aspetto, ma sì noto che alcuni miei alunni che hanno raggiunto un livello avanzato, in alcuni casi partendo da zero ed essendo persone adulte già da un po’, arrivano a combinare parole, strutture, stili e registri come se stessero improvvisando e modulando con un flauto o un piano. A me personalmente è risultato molto musicale il portoghese brasiliano parlato, oltre alla musica brasiliana in sé, anche per quello l’ho scelto come seconda lingua all’università.
Il wolof del Senegal invece mi risulta soprattutto percussivo, quando ascolto le conversazioni tra due o più persone rimango incantata dall’interazione ritmica e da quanto tempo può durare. Qualcuno mi ha detto: il wolof è facile, sono tutte parole corte. Eh, chissá…ovviamente non capisco niente, sospetto anche che per mantenere il dialogo si ripetano o riformulino cose già dette, a volte distinguo parole e interpreto il linguaggio non verbale, ma ho l’impressione che chi parla questa lingua, come anche altre lingue africane, abbia molta più attitudine all’interazione rispetto ad altre culture dove a volte la conversazione perde tono o si esaurisce, o si risolve in trionfo dell’ego.
L’immagine della copertina di questo libro è il titolo di questo post al contrario e non ha niente a che vedere con il suo contenuto. Ma, se vogliamo, in questo libro si esplorano altre forme di didattica della musica, condivisibili o no, che, al pari della didattica delle lingue straniere, in molti casi continua ad essere imbrigliata, quando non imprigionata, in dinamiche spesso infelici e poco producenti. Almeno nel mondo occidentale, sono in molti ad abbandonare con una scrollata di spalle: non fa per me…