Valeria Soave

Una brutta figura

Non trovo mai una traduzione soddisfacente di ‘Brutta figura’ nelle altre lingue che conosco. Quando devo spiegare questo concetto così fondamentale nella cultura italiana faccio sempre vari giri di parole, ma mi aiuta sempre un video didattico che da dieci anni utilizzo nelle mie lezioni e che considero geniale, intitolato appunto ‘Una brutta figura’.

Una brutta figura, o figuraccia, oppure, più volgarmente, ‘figura di merda’, è qualcosa che hai detto o fatto per cui vorresti sprofondare, invocando un ‘trágame tierra’, e che se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo non rifaresti mai. Qualcosa che ti ha fatto perdere la faccia, che ha intaccato profondamente la tua immagine agli occhi di qualcuno a cui avresti voluto o dovuto piacere. 

Come in questo video: Matteo, una matricola all’università, smarrito tra la mensa, la biblioteca, i bidelli e le aule, conosce sulle scale una giovane donna a cui chiede dove si trovi l’aula VI, per assistere alla sua prima lezione del corso di letteratura italiana, che sembra interessante, ma la professoressa, a quanto pare, è severa e antipatica, una canaglia, insomma. Senza sapere che sta parlando proprio con lei, la Prof.ssa Vera Canaglia. 

La brutta figura è un cliché tipicamente italiano, un tratto distintivo di questa cultura che ricorre nelle chiacchiere, nei bar, nei programmi televisivi e sulla scena politica. Una brutta figura è quella che ha fatto una volta un presidente del Brasile, prendendo in braccio e vezzeggiando in un comizio un nano di mezza età pensando che fosse un fanciullo, o un presidente italiano suggerendo il ruolo di kapò nazista per un film che si stava girando in Italia a un europarlamentare austriaco discendente di ebrei perseguitati.

La differenza del trattamento di una brutta figura, o gaffe, nella cultura italiana rispetto ad altre culture è che chi ha fatto la brutta figura la racconta agli amici e ci ride su, al bar o alla fermata dell’autobus, al supermercato o in coda alle poste; la racconta per esorcizzarla, per assimilarla, per trasformarla e poi dimenticarla, mentre in altre culture si tende ad occultarla, gettarla nel dimenticatoio, nasconderla sotto il tappeto, cambiare discorso, deviare l’attenzione o procurarsi velocemente altre esperienze sotto cui insabbiarla e seppellirla per non ricordarsene mai più. Nel caso, la raccontano gli altri e chi l’ha fatta rimane con la coda tra le gambe. Non si sentirà mai dire ‘Mamma mia, che figura di merda!”, come inizio e fine di una ilare e rigenerante narrazione in prima persona.