Valeria Soave

Zero Gravity

Il fiore di loto cresce in uno stagno fangoso e torbido…Quando il fiore sboccia pulcro e immacolato nello stagno putrido, anche l’acqua paludosa sotto il fiore diventa chiara, limpida e cristallina. Il fiore di loto nasce nitido, pulito e terso e fa brillare anche l’acqua che risale per venire alla luce. La causa e l’effetto sono simultanei.

Comincia così il documentario The language of the unknown, sull’ultimo Wayne Shorter quartet, con la descrizione del fiore di loto secondo il grande jazzista dalla lunga traiettoria, che ha formato questo quartetto verso i settant’anni, nell’anno 2000, e ci ha lasciati ai quasi novanta, nel marzo 2023. Non oso pensare a cosa sarebbero arrivati altri artisti illuminati se avessero raggiunto questa etá e non se ne fossero andati a quarant’anni, come John Coltrane o Camarón de la Isla.  Ho avuto la fortuna di vedere un concerto di Wayne Shorter nel 2017 e questo documentario esprime con rara esattezza quello che ho sentito ascoltandolo senza sapere bene cosa aspettarmi. Esatta antitesi di un’orchestra da camera, il quartetto è un continuo ping-pong tra musicisti che raccontano insieme una storia che si genera in modo cooperativo durante l’esecuzione stessa. La causa e l’effetto sono simultanei. Where are we? Si chiedono ogni tanto, e vanno avanti, esplorando territori nuovi senza paura di perdersi, come chi si inventa a braccio una favola della buonanotte o chi imbriglia un alunno nella costruzione comune di una lezione.

La partitura esce da se stessa continuamente e germoglia su altri piani fino ad apparire remota come il fondo di uno stagno. Ma quando il fiore sboccia, il fondo diviene chiaro e l’acqua dello stagno sulla verticale dello stelo è trasparente: il corridoio di luce diventa più ampio e si può continuare ad ascendere, anche guardando in basso, senza vertigini e senza paura di cadere, né di non tornare (to fear nothing).  A gravità zero, Zero gravity.

Non è l’imparare pacchetti e metterli in mostra (to flaunt) nei dischi e nei concerti per gli applausi, le vendite e i likes, dice Wayne Shorter, né il classico susseguirsi di assoli a turno tra l’inizio e la fine di un tema di jazz, aggiungerei. È il movimento congiunto di persone che si addentrano insieme in territori non familiari, cavalcando gli imprevisti e generando combinazioni inaspettate che danno vita a fioriture senza preavviso. Nessuno sa cosa succederà, non c’è un disegno pianificato, né un destino riconoscibile: il pubblico arriva a condividere lo stupore e la sorpresa dei musicisti stessi. C’è una partitura-canovaccio scritta per essere continuamente cambiata e per esplorare dimensioni aeree senza pesantezza, ravvisando di quando in quando la croce del sud di qualche pattern riconoscibile. Per fare questo c’è bisogno di esperienza, calma, controllo, ascolto e compenetrazione, interconnessione, unione tra componenti “intermingled”. 

You need compadres, dice Wayne Shorter, rivedendo in video una parte di un concerto del quartetto a Parigi nel 2012, dove i compagni costruiscono musica intorno al suo sforzo (the effort) da ottuagenario per arrivare a una nota molto acuta con il sax soprano, dopo un lungo cammino fatto di continui tentativi. Un cammino in cui non esistono errori, ma solo passi, uno dopo l’altro. Salite, curve, discese e linee rette, parti più o meno accidentate. È più importante il sentiero che la partenza o l’arrivo. Il germoglio risale dal rizoma del fiore di loto del fondo, risale a fatica, piano piano si apre la strada nel fango, clear the path, arriva alla superficie e sboccia di luce.